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Gaza non è una bandiera da sventolare

Sull’arte, la sensibilizzazione e l’illusione del gesto


Non me ne vogliate, e lasciate che vi spieghi il titolo provocatorio. Uso questo blog anche per mie riflessioni personali profonde ed esistenziali, a volte scomode e che ho il bisogno di condividere nel bene e nel male.

In questo articolo ho volutamente evitato di inserire mie illustrazioni, per focalizzare il lettore soltanto sul concetto di quello che cerchero' di spiegare.

Viviamo in un mondo dove ogni crisi rischia di diventare una narrazione digeribile, condivisibile, quasi vendibile. Negli ultimi mesi, l’immagine di Gaza ha assunto una funzione simbolica potente, ma anche ambigua. Siamo davvero più vicini alla causa palestinese o abbiamo semplicemente trovato un nuovo “hashtag giusto” per sentirci coinvolti?

In questo articolo voglio riflettere da artista, comunicatore e osservatore del presente su una questione che mi lascia inquieto: quando l’arte, invece di sensibilizzare, finisce per commercializzare la sofferenza?


Gaza come “punta dell’iceberg”: il conflitto che rivela altri conflitti


Gaza non è solo una zona di guerra. È una lente crudele ma precisa per osservare i rapporti di forza che attraversano tutto il mondo: la gestione della memoria, l’accesso alla cultura, il valore di una vita umana in base alla sua posizione geografica.

Dire “Gaza” oggi non significa solo parlare di una tragedia, ma evocare una struttura di potere globale. Gaza è la punta dell’iceberg che nasconde sotto la superficie un’enorme massa fatta di colonialismo, silenzi occidentali, censura economica e distruzione dell’identità culturale. Ogni museo raso al suolo, ogni biblioteca ridotta in cenere, ogni archivio artistico disperso è un colpo alla memoria collettiva di un popolo.


L’arte e l’estetica del dolore: quando la solidarietà diventa spettacolo


Qui nasce la mia inquietudine. Da artista, non posso non vedere come molti linguaggi creativi e informativi tendano a ridurre l’evento a simbolo estetico: manifesti, reels, installazioni, slogan che diventano virali e raccolgono like, ma spesso senza radici, senza reale impegno, senza comprensione.

Mi chiedo: stiamo davvero ascoltando, o ci stiamo solo guardando allo specchio mentre diciamo di ascoltare?

È la differenza tra un’opera che nasce dalla relazione, anche scomoda, con un evento storico, e un “progetto” che cavalca il tema come pretesto, come “tema caldo” del momento.


Il sistema dell’arte occidentale: etica selettiva e doppie misure


Chi lavora nel mondo della cultura lo sa bene: ci sono argomenti che si possono affrontare apertamente (come il sostegno all’Ucraina, spesso ben accolto da sponsor e gallerie) e altri che diventano subito scomodi, quasi radioattivi.

Parlare apertamente di Palestina o Gaza in certi contesti accademici o istituzionali può significare perdere finanziamenti, partnership, occasioni. Che poi sara' vero o e' solo uno spauracchio?

E allora l’artista, il curatore, il festival si ritrovano davanti a una scelta: restare in silenzio o trattare l’argomento in forma “gestibile”, magari simbolica, magari distaccata.

Ma il prezzo di questa estetica controllata è la perdita di autenticità.


Gaza come laboratorio di resistenza reale: l’arte dal basso che non cerca pubblico


Nel frattempo, dentro Gaza, l’arte continua a esistere. Non nelle gallerie, ma nei resti. Artisti locali creano con i materiali che hanno: sacchi di farina, detriti, brandelli. Non cercano visibilità, cercano memoria. Non costruiscono “progetti artistici”, ma atti di sopravvivenza identitaria.

Questa arte non ha sponsor, non ha premi, non ha curatori internazionali. Ma ha verità. E forse è proprio questo il nodo più difficile da accettare per chi, fuori, si affanna a “sensibilizzare” attraverso filtri estetici.


Conclusione: siamo pronti ad ascoltare davvero?


Questo articolo non vuole essere un’accusa, ma un invito alla riflessione.

Non c’è nulla di male nel voler sostenere, creare, partecipare. Ma la solidarietà non è uno stile visivo, e l’arte, per avere senso, deve prima di tutto spostare qualcosa dentro, non solo generare reazioni fuori.

Quando vediamo Gaza, cosa stiamo davvero guardando?

Un popolo in lotta per la vita, o un riflesso del nostro bisogno di sentirci buoni, impegnati, giusti? Un giorno forse saremo noi quel popolo?

Forse la vera sensibilizzazione comincia nel momento in cui siamo disposti a non trarre vantaggio dal dolore degli altri, neppure in forma simbolica.

Forse è ora di resettare tutto, come in un episodio di Black Mirror, e chiederci:

cosa resta, quando togliamo lo schermo?

Vi ringrazio per la comprensione e vi invito a dire la vostra commentare e condividere il pensiero NON NEI SOCIAL ma cominciate con chi vi sta accanto a raccontare, e indagare dove stiamo andando, cosa davvero ascoltiamo e di cosa ci stiamo nutrendo.

Grazie


Michele

Comentarios


© Michele di Erre Art
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Grazie per essere arrivatə fin qui sei chiaramente una persona curiosa.”
Restiamo ispirati, un po’ strani e piacevolmente disorientati insieme.

Sinceramente Michele

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